
Capitolo I – Tre immagini
Domenica 23 aprile 2034.
Era apparsa per la prima volta martedì mattina, al mio risveglio, e da quel momento aveva preso il controllo dei miei pensieri e delle mie giornate. Si era manifestata dal nulla, inaspettata, come una sorpresa – o meglio, uno shock. Inizialmente era solo un’immagine, la terza di quel risveglio angosciante che aveva sconvolto la mia vita tranquilla. La copertina di un menu di ristorante con l’iscrizione Yucatán, la sua elegante mano sinistra con un piccolo tatuaggio sul polso e, infine, il suo bellissimo viso pervaso da paura e urgenza. Tre immagini nitide, comparse come flash quella mattina, accompagnate da una forte e dolorosa sensazione di calore che mi aveva attraversato il corpo, dalla testa ai piedi.
Ricordo di essere rimasto a lungo seduto sul letto, sudato, con il cuore in gola, incapace di muovermi. Credevo fosse stato solo un incubo. Erano trascorsi sette giorni dalla mia ultima missione e, non avendo mai avuto problemi con le precedenti, non avevo dato peso a quanto accaduto. Dopo essermi ripreso dallo shock, dopo una rapida colazione e un’occhiata veloce alle ultime notizie, ero uscito di casa con un buon libro e un telo, diretto all’Hudson River Park, dove avevo trascorso il pomeriggio. Tornato a casa, avevo ordinato la cena dal mio ristorante giapponese preferito e l’avevo accompagnata con un paio di birre Kirin, guardando distrattamente una partita di football americano. Avevo proseguito la serata con una lunga sessione al mio videogioco preferito.
Il mercoledì mattina, Anna aveva preso una forma più definita, diventando ancora più reale. Al risveglio, ancora una volta, un’ondata di calore mi aveva attraversato il corpo, seguita da tre rapidi flash. I primi due erano identici a quelli del giorno precedente: la copertina del menu del ristorante Yucatán e la mano femminile, delicata, con il tatuaggio di un bocciolo di rosa sul polso. Nel terzo flash, invece, l’immagine statica del giorno prima si era trasformata in una breve sequenza animata. Guardandomi negli occhi, Anna mi supplicava: “Gabriel, aiutami”. Un’apparizione abbagliante e angosciante che mi aveva fatto sobbalzare e perdere conoscenza.
Riaprii gli occhi esausto e svuotato, come se avessi affrontato il più duro degli allenamenti. Anna mi aveva chiamato per nome. La sua immagine, la sua voce, erano troppo definite per essere frutto della mia fantasia. Le ore successive le passai a cercarla, scavando nel mio recente passato con l’aiuto di Angélique, la mia assistente virtuale. Cercai di trovare un ricordo di lei, ma invano. Non c’era traccia alcuna di Anna, né nei miei spostamenti né tra le persone che avevo incontrato.
Il terzo giorno, giovedì mattina, Anna mi rivelò finalmente il suo nome. Al risveglio, i tre flash si fusero in una sequenza continua, più lunga, e anche la sensazione di calore era più dolce. La vidi nuovamente seduta al tavolo, la mano sinistra posata accanto al menu del ristorante con l’iscrizione Yucatán. Il tatuaggio era sempre lì, ben visibile. Con uno sguardo dolce, ma impaurito, mi supplicava ancora: “Gabriel, aiutami”. Questa volta, come se mi stessi guardando in uno specchio, le risposi: “Non preoccuparti, Anna. Sono qui con te.”
Dopo aver ripetuto più volte quella scena nella mia mente, per paura di dimenticarla, iniziai a sospettare che la sua apparizione fosse collegata alla mia ultima missione. Non poteva essere solo un sogno. Dovevo trovare delle risposte. Contattare Real Dreams sarebbe stato inutile: rischiavo di compromettere il mio lavoro. Decisi di indagare da solo.
Cercando informazioni, trovai un articolo che parlava di frammenti residuali dei sogni. L’autore sosteneva che un risveglio improvviso, durante la fase di cancellazione dei sogni, poteva lasciare tracce incomplete; queste ultime, se stimolate da esperienze sensoriali, potevano riemergere come ricordi coscienti. Il mio piano era semplice: espormi a più esperienze sensoriali possibili.
Cominciai esplorando la città, assaggiando piatti di cucine diverse nei quartieri di New York. Ma, venerdì mattina, al risveglio, non ci fu alcuna apparizione. Mi svegliai con l’impressione di non aver sognato niente.
Anche sabato mattina nessuna visione e nessun ricordo di altri sogni. La tentazione di abbandonare tutto era forte, ma la sensazione vissuta nei giorni precedenti mi spinse a continuare. Se mio padre fosse stato al mio posto, non avrebbe abbandonato la ricerca così facilmente.
Quella sera, dopo una lunga giornata passata a esplorare Brooklyn, decisi di chiedere aiuto a Paul. Lo conoscevo da circa un anno grazie al nostro gioco online, Future-Chess. Paul, conosciuto come Baron Paul from New York, era una leggenda tra i giocatori. Una volta mi aveva chiesto del mio lavoro e, quando gli avevo accennato a Real Dreams, aveva subito cambiato argomento, chiedendomi di dimenticare la conversazione. Venni a sapere, da un altro giocatore, che Paul lavorava proprio a Real Dreams, ma di questo non ne parlava mai con nessuno. Da quel giorno non mi aveva più coinvolto nei tornei, anche se continuavamo a giocare insieme, di tanto in tanto.
Dopo aver atteso inutilmente, per delle ore, una sua connessione al nostro gioco online, gli inviai un messaggio:
2034.04.23 – 01:00 a.m.
“Ciao Paul, come stai? Ho bisogno del tuo aiuto e vorrei vederti di persona. Sei disponibile oggi (domenica) per un caffè? Grazie. Gabriel.”
Stanco per la lunga giornata, caddi in un sonno profondo.

Capitolo II – Jackpot
Lunedì 17 aprile 2034
“Buongiorno, si accomodi.”
“Buongiorno, Signor Gibson, possiamo sederci a un tavolo?”
Senza ulteriori formalità, feci accomodare l’agente di Real Dreams al tavolo della mia cucina. Un volto familiare, probabilmente già visto in passato, o forse solo un inganno della mia mente; ero felice di rivedere un essere umano in carne e ossa dopo tanti giorni. Con pochi gesti precisi e senza dire una parola, l’agente sbloccò la chiusura magnetica e rimosse dal mio polso lo strumento di tortura che avevo indossato 24 ore su 24 per sei giorni e sei notti. Lo ispezionò rapidamente e lo ripose con cura in una busta in materiale antistatico. Ero finalmente libero. Dopo averla riposta in una tasca interna della sua giacca, tirò fuori un sacchettino di plastica contenente il mio Bralex e lo posò sul tavolo. Tentai di offrirgli un caffè per celebrare la mia ritrovata libertà, ma rifiutò; sembrava avere fretta di restituire il prezioso dispositivo a qualcuno. Firmata la ricevuta elettronica, mi augurò semplicemente una buona giornata e se ne andò.
Indossai immediatamente il mio Bralex che, avendo la metà della carica ancora disponibile, si attivò subito al contatto col mio polso, ridando vita alla mia assistente virtuale, Angélique.
La mia ventesima missione per Real Dreams era stata completamente diversa dalle precedenti. La paga era esorbitante e le misure di sicurezza estreme, mai viste prima. Mi era stato chiesto di restare chiuso nel mio appartamento per sei giorni, con il divieto assoluto di uscire, ricevere visite o comunicare con l’esterno. E soprattutto mi era proibito rimuovere o danneggiare il braccialetto di sorveglianza che mi avevano messo subito dopo il risveglio dalla missione. Era una versione semplificata del Bralex, senza proiettore, ma con lo stesso grado di controllo. Essere sorvegliato giorno e notte, persino in bagno e sotto la doccia, era stato sgradevole, ma nulla al confronto dell’interrogatorio ripetuto al risveglio. Un rituale che mi aveva quasi fatto passare la voglia di dormire.
Ogni volta che mi svegliavo, di giorno o di notte, il braccialetto si attivava e mi invitava a rispondere alle solite quattro domande:
“Nome e cognome?” – “Gabriel Gibson.”
“Età?” – “29 anni.”
“Indirizzo?” – “315 W 34th Street, New York, NY 10001.”
“Occupazione?” – “Sognatore professionale e coach sportivo.”
Conoscevo bene queste domande, facevano parte del protocollo di risveglio delle missioni di Real Dreams e venivano solitamente poste da una persona in carne e ossa. Anche in questa missione, al risveglio nei locali di Real Dreams, avevo risposto al dottore presente. Subito dopo, però, mi aveva bloccato il braccio sinistro con quello che avevo ribattezzato lo strumento di tortura intelligente, che ripeteva il rituale dell’interrogatorio ogni volta che mi svegliavo. Non trovavo alcuna logica dietro a tutto ciò, lo consideravo ridicolo, ma era una condizione che avevo accettato per questa missione speciale.
Al terzo giorno di isolamento, dopo un sonnellino pomeridiano non pianificato, decisi di fare lo spiritoso e risposi Donald Duck alla prima domanda. Il mio senso dell’umorismo non fu apprezzato. La voce sintetica mi informò che la risposta errata avrebbe comportato una riduzione del mio compenso, e ripeté la sequenza di domande dall’inizio. Da quel momento, avevo obbedito come un soldatino, ben addestrato.
Che sollievo ritrovare il mio Bralex e Angélique! Mentre scorrevo le notifiche accumulate durante quella lunghissima settimana, arrivò quella che aspettavo: Real Dreams mi confermava la conclusione della missione e l’avvenuto bonifico. Verificai subito il conto: 195.000 dollari. Una somma enorme, che sarebbe stata di 200.000 se non avessi fatto lo stupido scherzo di Donald Duck. Per le missioni precedenti avevo ricevuto in media 10.000 dollari l’una, ma questa volta il compenso era più di venti volte tanto. Chissà quale cliente aveva sborsato una cifra simile a Real Dreams per questa missione? Ma sapevo che era inutile indagare. La riservatezza era garantita: ogni missione veniva suddivisa in più fasi, ciascuna gestita da uno specialista diverso. E, apparentemente, solo l’intelligenza artificiale centrale aveva accesso a tutti i dati, assicurando l’anonimato completo.
Era una splendida giornata di primavera, un lunedì. Dopo una settimana, come imprigionato nel mio appartamento, non vedevo l’ora di uscire. Con indosso le mie sneaker, una giacca leggera e gli occhiali da sole preferiti, decisi di fare una lunga passeggiata fino a Central Park. Risalendo la Settima Avenue, gustavo letteralmente immagini, suoni e odori. Finito l’isolamento, ero affamato di sensazioni. Sembrava che a ogni angolo scoprissi qualcosa di nuovo: un dettaglio su un edificio, il colore di un’insegna, la lucentezza delle vetrine.
Al parco, la festa dei sensi continuò. Tulipani e narcisi erano in piena fioritura e i ciliegi a Cherry Hill cominciavano a sbocciare. Mi sedetti su una panchina e mi persi nella bellezza di quel momento, rendendomi conto di quanto fossi fortunato. Grazie al compenso della missione avrei potuto trascorrere i miei lunedì al parco per un anno intero, mentre migliaia di persone, nella mia città, lavoravano freneticamente come formiche, in apnea fino alla prossima pausa.
Ero uscito da quel mondo da poco meno di due anni e mi sembrava che fosse passata un’eternità. Sì, avevo fatto parte di quel mondo frenetico e implacabile. Dopo il mio master, ero stato assunto da una banca d’affari per lavorare nel team di intelligenza artificiale. Inizialmente venni assunto come Artificial Intelligence Learning Designer, responsabile di definire i processi di apprendimento per l’AI. Il progetto ebbe un successo immediato; dopo solamente un anno fui promosso AI Manager e, dopo ulteriori nove mesi, AI Director. A ventisei anni ero il più giovane direttore della banca, a capo di un team di trenta specialisti.
Diventai una sorta di fenomeno da circo. Il giovane prodigio che ammaestrava la potenza dell’intelligenza artificiale, acclamato dai dirigenti e dagli azionisti. Il nostro CEO e il consiglio di amministrazione, incapaci di comprendere davvero il funzionamento dell’AI, mi esibivano come un trofeo: pranzi di lavoro, ricevimenti, gala e persino dei fine settimana esclusivi ad Aspen o alle Barbados. Ero conteso, richiesto ovunque e ogni nuova opportunità sembrava interessante. Sembrava impossibile dire di no.
Il mio appartamento da sogno a New York? Lo usavo solo per dormire quattro o cinque ore a notte al massimo. Il resto del mio tempo era completamente assorbito dal lavoro. Mi sentivo in un alto che sembrava non avere fine. Mi sentivo potente. Credevo di controllare la situazione e non mi rendevo conto di essere solo una pedina di un gioco che non era mio. Di più, ancora di più e più veloce. Fino a quel lunedì.
Un lunedì che era iniziato come tutti gli altri, con l’unica attività fisica che continuavo a praticare: il mio jogging mattutino. Svoltando l’angolo di un edificio, mi scontrai violentemente con un uomo di circa cinquant’anni. Erano le sei del mattino, un orario in cui non incrociavo quasi mai nessuno. L’impatto lo fece cadere a terra, ma fortunatamente non aveva sbattuto la testa e non sembrava avere dolori evidenti. Dopo essermi assicurato che stesse bene, mi scusai e lo invitai a prendere un caffè in un locale poco distante.
Si chiamava Marc. Aveva cinquantatré anni e aveva perso il lavoro da tre mesi. Da allora soffriva di insonnia. Sua moglie, un’infermiera, tornava a casa molto presto, alla fine del turno di notte, e Marc l’aspettava ogni mattina per salutarla. Dopo averla vista rientrare, usciva per una lunga passeggiata, lasciandola riposare in tranquillità. Quella mattina, la nostalgia per i tempi felici lo aveva spinto a camminare fino al suo vecchio ufficio. Mentre fissava la finestra del dodicesimo piano, non mi aveva né visto né sentito arrivare.
Per oltre vent’anni, Marc aveva lavorato nella stessa azienda, partendo come assistente fino a diventare responsabile finanziario a capo di un piccolo team. La società aveva buoni risultati, ma per restare competitiva, aveva deciso di modernizzare vari dipartimenti, tra i quali la contabilità, automatizzando i processi ripetitivi con l’intelligenza artificiale. In poco tempo, la maggior parte del lavoro venne automatizzato. Del suo team rimasero solo una manciata di persone, le più giovani, incaricate di gestire il 10% delle operazioni speciali e di controllare il restante 90%, ormai gestito dall’AI. Un dipartimento troppo piccolo per avere un responsabile finanziario.
Dopo vent’anni di fedeltà, l’azienda lo aveva licenziato, offrendogli due mesi di stipendio e di assicurazione medica. Come sostegno alla riconversione, gli avevano pagato tre sessioni di coaching per aiutarlo a trovare un nuovo impiego. Durante la prima, scoprì che per ogni posto da contabile disponibile a New York c’erano migliaia di candidati. Nella seconda, gli fu chiaro che la sua esperienza non valeva più nulla in un mondo lavorativo dominato dalla tecnologia. Infine, nella terza, apprese che l’unico settore con richiesta di personale era la “sicurezza”, che offriva stipendi modesti, ben lontani da quanto guadagnava in passato.
Marc era un uomo dignitoso, ma il suo racconto era pieno di malinconia. Aveva paura delle armi, ma era pronto a superarla e anche ad accettare uno stipendio inferiore, pur di trovare un lavoro. Per finanziarsi il corso di formazione come agente di sicurezza in una scuola privata, aveva dovuto investire tutti i suoi risparmi e chiedere un prestito, garantito con ipoteca sul loro modesto appartamento.
Immerso nella sua storia, non mi accorsi del tempo che passava. Quando guardai l’orologio, era già l’ora in cui di solito mi avviavo verso l’ufficio. Prima di separarci, gli chiesi di connettere i nostri Bralex, per restare in contatto e avere notizie sulla sua salute nei giorni successivi. Marc, con un sorriso stanco, mi rassicurò sul fatto che stava bene e accettò la mia richiesta di connessione.
Tornato a casa, chiesi ad Angélique di trasferire 10.000 dollari a Marc, con il seguente messaggio:
“Ti prego di accettare questo contributo per la tua formazione. Sono sicuro che riuscirai e che un giorno sarai tu ad aiutare qualcuno che lo merita. Gabriel.”
Quell’incontro cambiò il corso della mia vita. Decisi di non andare in ufficio, quel giorno. Passai la giornata al parco, con il mio Bralex disattivato: una decisione buona, anzi ottima, ma non l’ultima della giornata. Tornato a casa, ne presi una ancora più importante: non sarei mai più tornato in quell’ufficio. Diedi le dimissioni. Rinunciavo a un ottimo stipendio e a stock options che avrebbero sicuramente fatto di me un giovane milionario, ma riprendevo il controllo della mia vita. Nelle settimane seguenti, il mio datore di lavoro tentò in tutti i modi di farmi tornare: proposte allettanti, minacce velate. Alla fine, si arrese. L’aver terminato bruscamente quel capitolo di vita frenetica mi fece cadere in uno dei miei bassi dal quale uscii lentamente, grazie alla contemplazione della natura.
Da quel lunedì, ogni visita al parco sapeva di libertà e diventava un balsamo per l’anima quando il mio umore vacillava.
Dopo aver mangiato un New York Dog e aver fatto una lunga pausa al Public Fare, mi diressi verso nord e arrivai all’East 110th Street Playground, poco prima del tramonto. Il parco giochi, che ero abituato a vedere pieno di bambini, genitori e tate, era stranamente vuoto. In quella calma surreale, una giovane coppia si baciava teneramente su una panchina. La mia gioia si trasformò in malinconia. Ero libero, anche economicamente, ma ero solo. Molto solo, troppo solo, da troppo tempo.

Capitolo III – Una missione speciale
Lunedì 10 aprile 2034.
“Ricevuto.”
Con una semplice parola confermai la ricezione della notifica da parte di Real Dreams:
“Conferma e convocazione: Signor Gibson, abbiamo ricevuto le sue autorizzazioni digitali per la sua prossima missione. Le ricordiamo che è atteso domani, 11 aprile 2034, alle ore 14:00 presso il laboratorio Real Dreams per la preparazione al sogno. La invitiamo a passare eccezionalmente dall’entrata del garage, accanto a quella principale attualmente chiusa per lavori. Un nostro collaboratore l’attenderà all’ascensore F. Cordiali saluti, Servizio ODD di Real Dreams.”
Mi avevano contattato il Lunedì di Pasqua, solo un giorno prima, per una missione urgentissima. Oltre a essere imminente, doveva essere estremamente importante. Il contratto, solitamente una semplice pagina con data, ora e compenso, questa volta era diverso: sembrava fatto su misura. Il compenso, comprensivo di un premio per l’urgenza, era spropositato e precisato in lettere, per evitare malintesi. Non si trattava di un errore. Oltre a ciò, c’era una lunga lista di misure di sicurezza speciali da rispettare, prima e dopo la missione. Un incarico per una sola notte, ma con condizioni mai viste prima.
Tanti soldi, tantissimi, e precauzioni straordinarie per un sogno di una notte.
Vivere di sogni, senza mai bisogno di concretizzarli. Da lassù, mio nonno materno doveva sicuramente farsi delle grandi risate. Non parlava molto, forse per timidezza, ma quando lo faceva le sue parole pesavano come macigni. Quando mia madre chiamava i nonni in video, era sempre Nonna a rispondere mentre Nonno preferiva rimanere in disparte. Ma una frase sua mi era rimasta impressa e mi aveva accompagnato nella mia breve carriera da sportivo: “È bello sognare, ma poi bisogna lavorare.”
Dopo la morte di mio padre, avevo passato quasi tutte le vacanze estive dai nonni materni, in Italia. Vivevano a Ostuni, la città bianca, a dieci minuti dal mare. Avevo otto anni, quando sentii per la prima volta mio nonno pronunciare quella frase. Ogni estate, mia madre mi faceva trovare un grande libro di revisione scolastica, pieno di esercizi di matematica, grammatica e letture brevi. Amavo leggere, ma detestavo fare i compiti durante le vacanze. Passavo più tempo a negoziare con mia madre che a fare gli esercizi. Un giorno, nel bel mezzo di una delle nostre solite discussioni, Nonno entrò in cucina e pronunciò semplicemente quelle parole. La conversazione si chiuse lì e io mi misi subito al lavoro.
La volta che ricordo meglio, però, fu l’ultima. Avevo quattordici anni e quelle erano le mie ultime vacanze dai nonni. Come ogni anno, Nonno ci salutava la sera prima della partenza e non era mai presente al momento dei saluti. “Ho qualcosa da fare” diceva, o “Devo andare a pescare.” Ma quella mattina mi svegliai presto e lo trovai seduto in cucina. Si alzò, mi strinse forte in un lungo silenzioso abbraccio e poi ci sedemmo a parlare, cosa che raramente succedeva. Prima di uscire, si fermò sulla soglia e mi disse ancora una volta: “Ricordati, Gabriel, è bello sognare, ma poi bisogna lavorare.”
Quel ricordo mi accompagnò anche il giorno del suo funerale. Nonna mi raccontò che, ogni volta che Nonno ripensava a quella conversazione, piangeva di gioia. Morì alla fine del 2019, stroncato da un infarto, mentre pescava da solo. Pochi mesi dopo, anche mia nonna lo seguì.
La giornata volò via rapidamente, e prima che me ne accorgessi, era già tardi. Il giorno successivo sarebbe stato importante. Chiesi ad Angélique di suonare Dream On degli Aerosmith e mi accasciai sul letto.

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